G.B.FARALLI

In genere il gusto della periferia provinciale non offre molti spazi alla ricerca linguistica, e non stimola precisi confronti con il fervore artistico, positivamente anarchico, del mondo contemporaneo. Perciò, magari, una mostra di questo tipo potrebbe essere decifrata come insulto e provocazione o, al limite, essere giudicata inosservabile, e mortificata nel silenzio. Bene, rompiamo il silenzio e tentiamo di rispondere in anticipo alla naturale, ovvia, domanda dell'osservatore (una giusta, intimamente compressa, frase interrogativa: che cosa vuol dire Ernesto Liccardo?). A questa domanda ho cercato di rispondere a me stesso, per mia necessità di chiarezza, nel visitare il disordinatissi mo laboratorio di Ernesto, inzeppato di materiali di ogni natura, e di calare gli occhi e la mente sui suoi esperimenti grafici, sulle testimonianze della sua storia e preistoria espressiva, sui suoi pali, serpenti sinuosi e lame di falci, e poi quel nero, dilagante, prevaricante, ossessivo in contrasto con folgori bianche, sprazzi, guizzi di candido lume. Liccardo, dopo un lungo esercizio grafico e pittorico, è approdato alla scultura, privilegiata come forma concreta del visibile, nella sua tridimensionalità spaziale: come forma in cui la manipolazione della materia diviene meno artificiosa e illusoria e si accosta meglio alla primigenia plasticità della manifestazione artistica. Ove la significazione oscura, misterica, totemica del simbolo si impone sul dato reale, documentario, fotografico o impressionistico, e si esplicita in una figurazione geometrizzata (cerchi, croci, lanceoli, serpentine), che si accampa sul fondo magmatico, a essenzializzarne concettualmente la cifra primaria - che non conosce la gradualità morbida e riflessa delle sfumature ma si fa leggere nel suo perenne contrasto di bianco e nero, sole e tenebre, meriggio e notte, vita e morte, purezza e lordura, malattia, pozzo, in cui l'uomo affoga -. Non so decodificare diversamente il simbolismo di Liccardo, se non in questa cognizione dell' oscuro materico, trafitto, e anche illuminato, da fulgenti acuminate lame. Le costruzioni evocano l' indistinto del caos, riti magici, tribali, visioni primordiali, che sottintendono mitografie freudiane, e perciò appartengono più all' ES che all' IO, più all'enigma dell'onirico che al la chiarezza della coscienza, e in quanto tali trasgressive e dissacratorie dell' abitudine, della normalità, della sanità, del gusto corrente, dei modelli garantisti tradizionali. Laddove, in Liccardo, si materializza l' incubo, il notturno, il codice dell' ignoto e terrorizzante vagare dell' inconscio in un universo buio: disseppellire questa notte dell' essere, deposito delle millenarie angosce umane, è, a mio giudizio, l' obiettivo artistico dell' autore, e il filo di Arianna della comprensione. Di qui la necessità di utilizzo di un materiale che, nella sua grezza promiscuità (pietra, ferro, stagno, legno, bitume, cera, lucido di scarpe, etc...) si rende funzionale ad un concretismo diretto a rappresentare, essenzialmente, una sorta di religiosità primitiva, animistica, un misticismo antico, iniziatico, entro il quale si totalizza quello che potremmo definire il processo di reificazione dell'autore, da intendersi nel duplice modo di sarcastico rifiuto dei modelli ufficiali, e quindi della civiltà che li ha prodotti, e di enfatizzazione del notturno, che appartiene alla psiche individuale, certamente, ma da sempre a quella collettiva.

Isernia, maggio 1989

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